mercoledì 11 aprile 2012

Sulla necessità di un allenamento contundente nella pratica del Karate Shotokan







Premessa :
La questione è di centrale importanza per poter dire cosa sia oggi il karate, ovvero
se possiamo ancora definirla ”arte marziale”, o se si sia volontariamente relegata nel novero delle discipline cosiddette”ginniche”. Tutte la arti marziali nascono in origine con il medesimo scopo, di fornire ai loro praticanti gli strumenti fisici, tecnici e mentali per affrontare con efficacia un combattimento reale, sia in uno scontro con adepti di discipline che hanno gli stessi fini, che in caso di aggressioni subite da persone estranee a questo mondo, ma non per questo prive di pericolosità.


Le arti marziali cosiddette tradizionali, dagli inizi del ‘900 in poi hanno subito
sostanziali trasformazioni: la maggior parte sono state trasformate in discipline
sportive, altre, in metodi per cui la crescita spirituale dei praticanti è diventata
l’obiettivo principale, prendendo il sopravvento sulla ricerca dell’ efficacia.
Il karate Shotokan è diventato, dal 1957 in poi, uno sport a tutti gli effetti, che con l’andar del tempo si è allontanato sempre più dalla sua origine “marziale”.
Una variante di questo stile è il “Karate Shotokai” (shotokai era il nome della prima associazione di karate diretta dal M° Gichin Funakoshi). In questo metodo
creato dal M° Shigeru Egami, i due contendenti non cercano di prevalere uno sull’altro (“karate omicida” lo chiamava il M° Egami), ma di unire le proprie energie e i propri spiriti: il karate visto quindi come “via della pace”, un concetto traslato dall’aikido del M° Ueshiba.

All’estremo opposto si pone il metodo elaborato dal M° Taiji Kase ( Karate Shotokan Ryu Kase Ha), che conserva l’idea di fondo che animò il M° Yoshitaka Funakoshi durante l’elaborazione dello stile shotokan, ovvero la creazione di un sistema di combattimento, con un estremo grado di efficacia di fronte ad un possibile scontro reale. Entrambi questi metodi (lo shotokai e il karate shotokan ryu Kase ha) sebbene agli antipodi, sono rimasti fedeli alle disposizioni del fondatore ( mai gare nel karate…) e hanno entrambi rinunciato alla pratica agonistica, che mal si sposa con entrambi gli obiettivi…





Lo Shotokan (nato intorno agli anni 1936-1945 per opera del M° Yoshitaka Funakoshi e dei suoi assistenti) era stato codificato quindi, per essere un metodo “di provata efficacia“, uno stile estremo, molto duro e discriminante, dove non c’era spazio per ”corsi bambini e adolescenti”, con un alto grado di selezione naturale, per le qualità fisiche e caratteriali che venivano chieste ai suoi praticanti; gli incidenti durante le sessioni di allenamento erano numerosi e spesso gravi (come ha confermato più volte il M° Kase).
Uno stile nato in anni di guerra (guerra Cino Giapponese e Seconda Guerra Mondiale) e per la guerra, che richiedeva quindi elevata intensità nella pratica ( allenamenti “furiosi” li definiva il M° Kase) e capacità di sopportazione del dolore, caratteristiche nemmeno concepibili nelle moderne scuole di karate; d’altra parte, diceva sempre il Maestro: “per giovani pronti a morire per l’Imperatore, non erano certo ematomi o fratture a preoccupare”.

La guerra non c’è più, la pratica e gli obbiettivi sono cambiati: dal 1957 (anno dei primi campionati giapponesi ) il karate si è trasformato in una disciplina sportiva a tutti gli effetti e da quel momento l’efficacia in combattimento, che fino a tutti gli anni settanta si era più o meno preservata, è andata col tempo perdendo importanza, passando in secondo piano ( continuiamo a chiederci con rammarico cosa nel frattempo
sia passato in primo…). Purtroppo così facendo, il karate ha colpevolmente abdicato dal ruolo di “arte marziale principe” a favore di sistemi di difesa personale nati recentemente, che sono null’altro che collage mal riusciti, di tecniche provenienti dalle arti marziali tradizionali…

Ci ostiniamo a credere che sia un delitto aver ridotto questa disciplina ad un semplice sport e non sfruttarne le enormi potenzialità combattive. Per tornare a ridefinire il karate “arte marziale”, bisognerebbe però apportare alcune modifiche rispetto alla pratica attuale. Innanzitutto si dovrebbe tornare ad applicare tutto il patrimonio tecnico di questa disciplina, patrimonio che la pratica agonistica ha impoverito perché non funzionale ai suoi obiettivi: pugni a gancio, a uncino, montanti, colpi con il taglio della mano, calci ai genitali (kinteki geri) e alle gambe, tecniche di gomito e di ginocchio. Tutte tecniche che facevano parte del nostro bagaglio di un tempo e che, vietate in gara, sono allenate esclusivamente durante la pratica dei kata e dei relativi bunkai (improbabili applicazioni, se non con avversari compiacenti, che aspettano diligentemente il loro turno per attaccare), ma che non sono più utilizzate nel kumite, vero ed unico banco di prova per poter valutare con veridicità la propria efficacia e potersi definire “karateka” a tutti gli effetti. In secondo luogo sarebbe opportuno il ritorno costante alla pratica del makiwara e del sacco, gli unici due strumenti che permettono di aumentare la potenza dei propri colpi (se praticati correttamente...).

L’ultima modifica rispetto alla pratica attuale dovrebbe riguardare l’intensità dell’impatto durante la pratica dei kumite; dovrebbe a mio parere essere reintrodotta negli allenamenti una certa dose di contatto fra i contendenti, per mettere davvero alla prova le loro qualità fisiche e mentali, la loro effettiva capacità combattiva, il controllo della mente sulla sfera emotiva e la relativa sopportazione del dolore, tutte qualità indispensabili per i discepoli di qualsiasi arte che si voglia definire “marziale”. Si intende, più precisamente, che è necessario ci si riabitui, durante i kumite, prestabiliti o liberi che siano, alla ricerca di una certa “contundenza” in tutte le tecniche portate, pugni, calci o parate che siano.

Com’era e com’è diventato il karate:
Un tempo non ci sarebbe stato bisogno di fare questa precisazione, i vecchi praticanti di karate sapevano che un contatto abbastanza elevato era parte integrante di questa disciplina, non ci si poneva neppure il problema, il controllo era adottato solo per i colpi al viso…( neanche sempre) ed era motivo quasi di disprezzo far trasparire la benché minima paura o il benché minimo dolore per i colpi ricevuti; i KO erano frequenti e nessuno gridava allo scandalo, questo sia durante la pratica nel dojo,che durante le competizioni. Il karate, in quegli anni, era, con le dovute proporzioni, una disciplina che si poteva definire ancora “marziale” a tutti gli effetti. La connessione fra la pratica nel dojo e un eventuale combattimento reale era molto forte, diversi maestri italiani dell’epoca portavano, di tanto in tanto, i loro allievi a provare “sul campo” l’efficacia di quanto studiato in palestra (per “campo” intendo la strada…).

Le sfide con i praticanti, di arti marziali diverse dalla nostra o di sport da combattimento ( pugilato, thai boxe, full contact) erano frequentissime e davano a noi karateka, la dimestichezza con traiettorie e strategie diverse, era in definitiva un valido banco di prova per capire la nostra reale preparazione. A parte le differenze tecniche e tattiche c’era una cosa che univa gli adepti di queste discipline, il contatto durante gli incontri era sempre elevato…

Nessuno voleva perdere e tutti accettavano come una cosa normale (vorrei vedere che non lo fosse in
una disciplina che si definisce “marziale”!) portare i colpi a segno visto che, era ed è rimasto, l’unico modo di stabilire con certezza chi vince e chi perde. Nelle stesse gare dell’epoca il concetto di controllo aveva connotazioni più metafisiche che reali, gli incidenti erano frequenti e io come tanti altri porto ancor oggi i segni di quegli shobu ippon, in cui denti e nasi rotti erano all’ordine del giorno, gli stessi arbitri erano propensi a premiare più che a punire il contendente che portava un colpo a segno, nonostante generiche raccomandazioni prima della competizione… peraltro quasi sempre disattese. Facciamo che in quei tempi (da l957 fino a tutti gli anni settanta) chi colpiva andando a contatto con l’avversario veniva premiato con un punto, ( o mezzo punto) come è giusto che fosse e non punito con la squalifica ( cosa che accade oggi) così che il vincitore risulta in definitiva essere il perdente.
Personalmente, durante la mia carriera agonistica, non avrei amato uscire in barella con l’arbitro che, nel frattempo, mi proclamava vincitore…

Si usciva sconcertati in un campionato mondiale, da spettatore. Organizzato da una delle tante federazioni esistenti ( altra peculiarità tutta nostra l’avere almeno sei federazioni che organizzino i mondiali…) vidi la squadra giapponese squalificata durante la semifinale di kumite, per aver rifilato tre magnifici ushiro geri agli americani, che usciti in barella furono però proclamati vincitori (per la cronaca, in finale gli Stati Uniti batterono la nazionale italiana e si laurearono così campioni del mondo…). Non so quando è stato l’esatto momento storico in cui si è deciso di sanzionare in
modo severo il contatto, ma so per certo è che è stata una decisione prettamente politica, forse (questa la prima motivazione) con la prospettiva che così facendo, sarebbe stato più facile raggiungere il sogno olimpico (diventato nel frattempo un incubo…).


Tale sogno si è rivelato nel tempo una chimera, come testimonia (ultima di una lunga serie) la decisione del CIO presa l’estate scorsa che ha nuovamente rifiutato l’ammissione del karate alle olimpiadi affermando che sono troppe le federazioni che lo rappresentano (ognuna con un regolamento di gara diverso..) e che, proprio a causa della mancanza di contatto, il criterio con cui si assegnano i punti e di conseguenza si vincono e si perdono le gare, non è per niente chiaro. Proprio la mancanza di contatto lascia la decisione della sconfitta o della vittoria alla completa discrezionalità degli arbitri, che sono per le loro decisioni spesso oggetto di innumerevoli proteste ( e sospetti…) mentre l’ignaro pubblico resta escluso da qualsiasi comprensione sul perché venga proclamato vincitore uno dei due contendenti.

Una seconda motivazione, che ha portato a togliere ai praticanti l’abitudine di portare i colpi a segno (fonte di un famoso tecnico federale), è che togliendogli pericolosità il karate avrebbe goduto di un bacino d’utenza più ampio (meno rischi, più persone disposte a praticare, più soldi tanto per capirci). Il risultato per alcuni anni è stato effettivamente raggiunto (ora siamo in calo vertiginoso…) ma con una controindicazione: da quel momento hanno iniziato a frequentare i corsi di karate quasi esclusivamente bambini. Le innovative metodologie d’allenamento erano state elaborate pensando prevalentemente a loro, il resto dei praticanti, anche se di fascia d’età diversa e con diverse aspettative, si sarebbe conformato a quelle; basta entrare in un moderno corso agonisti e vedere allegri karateka che per allenare i riflessi lanciano (con molto kime a onor del vero) palline di gomma, anzi che pugni e calci…

Così facendo i ragazzi giovani e che avevano ancora voglia di una pratica dura, si sono allontanati dalla nostra disciplina per confluire in massa negli sport da combattimento. Se osservate l’età media dei praticanti durante un allenamento o uno stage di karate, vi accorgerete che la maggioranza è composta da bambini e da signori attempati, con panzetta di ordinanza e maglietta della salute sotto il keikogi, mentre la fascia d’età intermedia è desolatamente assente…in compenso è ben presente in un corso di thai boxe, dove guarda caso, mancano completamente le altre due categorie. Franco Carraro, quando era presidente del CONI, uscì inorridito anzitempo da una gara dimostrativa al pala lido di Milano, organizzata appositamente per cercare di far ottenere al karate, il riconoscimento del comitato olimpico; dopo aver visto non so quanti nasi e denti rotti, il dott. Carraro, andandosene, disse che non avrebbe mai dato il riconoscimento ad una disciplina così violenta; probabilmente i vertici federali decisero allora che le cose dovevano cambiare, che il karate andava addolcito e reso più “urbano”, così il “contatto” diventò sempre più una rarità ( visto appunto come “mancanza di controllo” ) e questo, insieme alle nuove metodologie di allenamento, allontanò gradualmente il karate dal suo passato marziale e da ogni connessione con il combattimento reale.

Un allenamento produttivo
Il M° Kase diceva che era necessario un allenamento molto contundente ( le sue lezioni lo erano…) perché un karateka non poteva, a suo dire, trovarsi nel momento del bisogno, senza aver sperimentato nel dojo la sensazione del duro impatto e senza aver verificato di conseguenza le proprie reazioni emotive di fronte al dolore. Che utilità può avere praticare karate, evitando accuratamente di portare i colpi a segno, è una cosa che mi chiedo continuamente, come mi chiedo a cosa possano servire supposti corsi di difesa personale, se la familiarità con il contatto fisico e il controllo mentale sulle proprie emozioni, che sono senza dubbio le qualità più importanti per uscire incolumi in caso di aggressione, non vengono affrontate in sede di allenamento.

E anche all’interno del karate sportivo, per quelli che considerano il karate solo uno sport e non più “arte marziale”, che tipo di sport sarebbe di grazia? Perché, se vogliamo definirlo “sport da combattimento”, allora l’eventualità di prendere qualche colpo, dovrebbe essere comunque messa in conto, come dovrebbe essere palese che viene premiato chi porta più colpi a segno…

Non vogliamo considerarlo neanche uno sport da combattimento, bene, ma di grazia qualcuno mi potrebbe dire allora cos’è ? E’vero che definire equivale a limitare, ma il famoso neofita ( quello di prima che povero lui non capirebbe nulla in una gara di karate) potrebbe chiedersi prima o poi cos’è, e a cosa serve il karate…E una risposta bisogna pur dargliela.
Questa disciplina soffre di una contraddizione, a nostro modo di vedere insanabile: se praticata a pieno contatto e con l’utilizzo di tutte le tecniche del suo repertorio, può provocare (per la pericolosità e l’efficacia dei suoi colpi) lesioni molto gravi e  permanenti; se si elimina il contatto e si riduce il bagaglio tecnico ( più o meno quello che si fa adesso ) è sostanzialmente inefficace in un combattimento, sia in caso di difesa da aggressione reale, sia nel confronto con altre discipline potenzialmente meno pericolose, ma praticate in modo più realistico del karate.


E’ difficile trovare una soluzione, ogni Maestro deve trovare la propria via sapendo, però, che tutto non si può ottenere: o l’efficacia e qualche ematoma, o l’incolumità a scapito delle capacità combattive, tertium non datur…

La opinione è che il karate dovrebbe ritornare ad essere un’arte marziale per persone disposte ad accettare un certo grado di pericolosità e a considerare inevitabile il rischio di qualche trauma. Anzi gli ematomi, con cui bisogna convivere, vanno vissuti come un momento di crescita e acquisizione di alcune qualità caratteriali da cui un karateka non può prescindere, i colpi presi servono a prendere coscienza di come si reagisce di fronte al dolore e alle proprie paure, ( che sono le paure di tutti, intendiamoci,) e a guardarsi allo specchio per capire chi si è veramente, senza illusioni, per poi decidere
in un secondo tempo, se si è o meno adatti a praticare questa disciplina.


Il dolore diventa così il nostro maestro, ci dice oltre a chi siamo veramente, se abbiamo le qualità fisiche e morali per lasciarci trasformare in Karateka, o se dobbiamo accontentarci di praticare uno sport che non esponga a questi rischi. Dobbiamo quindi poterci rendere conto, se la montagna che avevamo deciso di scalare, non fosse troppo alta per noi. L’allievo di un dojo tradizionale deve avere, secondo i Giapponesi, una predisposizione d’animo chiamata “nyunanshin”, ossia uno spirito flessibile, pronto per essere plasmato e forgiato dal punto di vista fisico, tecnico e mentale (tai, waza e shin, i tre gradi dell’apprendimento ). Solo in un secondo tempo, concluso questo percorso, l’allievo conseguirà il “fudoshin” ovvero uno spirito inflessibile ed un cuore fermo e solo con fudoshin si potrà definire un bushi
( guerriero) a tutti gli effetti.

Il metodo che si dovrebbe usare durante l’insegnamento del Karate, è naturalmente figlio degli allenamenti fatti con i Maestri che hanno fatto la storia, con allenamenti molto duri e con un alto grado di “contundenza” (ognuno si sceglie ed è scelto dai Maestri con cui c’è comunanza di
spirito e di vedute, naturalmente) tutti loro dicevano che una lezione di Karate, per essere produttiva, deve avere alcune caratteristiche, per così dire, ambientali: innanzi tutto nel dojo si deve creare uno stato d’elevata tensione psicologica, bisogna percepire la pericolosità del luogo e il rischio per la propria incolumità; un vero dojo trasmette un’atmosfera allo stesso tempo calma e violenta; si deve avere la sensazione di essere in un luogo carico di energia combattiva. Le lezioni con il M° Formenton ( e naturalmente di quelle con il M° Kase):



Già la sera prima si entrava in uno stato d’ansia che faceva passare la notte in bianco e si ci chiedeva perché fare tanti chilometri per prendere tutte quelle botte ( pagando
oltretutto…).
Alcune volte speravano che la lezione fosse rinviata per un qualche intervento del fato…Ciò non succedeva mai e alla fine si usciva dolorante ma rigenerato, con energia rinnovata e uno spirito diverso. Durante le lezioni o gli stage, dove al contrario, non c’era alcun rischio per la incolumità e da cui si usciva senza alcun ematoma, (c’è una nutrita schiera di Maestri che sposa la causa di questo metodo a-traumatico e rilassato, diciamo che sono il novanta per cento) si tornava a casa con l’amaro in bocca, sentendo di aver aumentato il livello energetico e quello combattivo.

Il rispetto ed il controllo
Una cosa è sempre vissuta come falsa, è il nascondersi, da parte di alcuni Maestri, dietro le parole “rispetto” e “controllo” per giustificare la scelta di una pratica indolore durante le loro lezioni. Ci vogliamo esprimere su questi due concetti: è proprio perché rispetto il mio compagno, che devo cercare di colpirlo attaccando e difendendo in modo realistico, così facendo miglioro il mio e suo livello, perché costringo entrambi ad attingere a tutte le rispettive energie psicofisiche per non soccombere; in questo modo siamo posti di fronte a limiti e a paure, paure e limiti che è meglio affrontare nel dojo, anzi che vissute, per la prima volta, in uno scontro reale (ah già, si dimentica che i karateka di oggi sono per la non violenza). Se al contrario cerco di evitare il contatto, sto mancando di rispetto al mio contendente, non lo sto aiutando a verificare l’efficacia delle sue difese e dei suoi attacchi, ergo non sono stato leale con lui.

Il M° Kase, con le sue parole: diceva che per migliorare il mio livello devo attaccare il mio uke con il massimo della contundenza, lui sarà costretto ad aumentare il livello delle sue parate per non farsi colpire
( diceva il M°”con la parata cerchiamo di provocare
un collasso all’attaccante, situazione di cui noi beneficiamo per portare il
contrattacco”…) e io, a mia volta, quella dei miei attacchi in una continua e reciproca ricerca della massima efficacia.
Questa falsa interpretazione del rispetto, a cui ho accennato prima, va di pari passo con un altro concetto che, male interpretato, può creare, ed ha creato, numerosi danni ai praticanti di karate, ovvero quello del controllo. Controllare una tecnica a mio parere significa non scaricare tutta la potenza di cui sono capace quando arrivo a contatto con l’avversario, ma al contatto, ci dovrò pure arrivare…

“10%, 20%, 30 %” diceva ridacchiando il M° Kase, riferendosi alla percentuale di potenza espressa nei suoi colpi (pugni calci o parate che fossero), lanciati contro gli atterriti uke che finivano inevitabilmente e inesorabilmente k.o. (alcuni di loro, grandi e titolati Maestri, hanno lo sguardo truce e molto determinato nei video che producono, ma di fronte al M° Kase, li ricordiamo tremanti come pulcini bagnati…).
A questo proposito il karate, oggigiorno, mi sembra diventato una grande recita, bravissimi attori, belle posizioni, i giusti sguardi, l’atteggiamento da samurai pronti alla guerra… ma di combattere sul serio non se ne parla, di contatto neanche l’ombra; Chi ce lo fa fare di tornare a casa pieni di ematomi, meglio atteggiarsi a guerrieri che diventarlo veramente, costa meno fatica e poi nessuno ce lo chiede, come al solito solo di necessità si fa virtù…ma se la necessità viene meno…

Riassumo il pensiero sui rischi connessi a una pratica, per così dire ”indolore” del karate ( con una pratica “dolorosa “ ne corro altri naturalmente):
· Non ho riscontro della mia efficacia e non imparo a dosare la potenza delle tecniche.
· Mi abituo a colpire fuori distanza falsando il concetto di “ma ai” (uno dei parametri più importanti per un allievo di arti marziali), cosa pericolosa nel qual caso mi servisse, un giorno, arrivare a impatto con una certa probabilità di successo.
· Non ho la possibilità di verificare come reagisce il mio corpo, di fronte ad un eventuale impatto con un corpo estraneo (purtroppo il sacco non offre la stessa sensazione) e di capire se, l’energia prodotta dai miei colpi, attacchi o difese che siano, è trasferita sul bersaglio o riassorbita dal mio corpo facendomi subire una forza uguale e contraria che può compromette il mio assetto.
· Non alleno il temperamento, non affronto le paure e gli stati d’alterazione emotiva, di conseguenza, continuo a rimanere sconosciuto a me stesso, magari illudendomi che nel momento del bisogno qualche santo arriverà…

CONCLUSIONI
Queste riflessioni sul modo di intendere e praticare il karate non portano a nessuna conclusione particolare, tanto meno pretendo che le mie idee siano condivise; Non voglio dare lezioni a chicchessia, ogni modo di praticare presenta delle controindicazioni ed siamo consci dei limiti e dei rischi connessi ad un allenamento condotto con un elevato grado di fatica psicofisica e traumatico al tempo stesso, ciò nonostante è necessario secondo me, un ritorno ad una pratica più ”intensa e contundente” per usare le parole del M° Kase. Diciamo che, se il karate un tempo era praticato da tutti in modo univoco, da qualche decennio a questa parte è proposto in modo variegato, oggi la maggior parte dei dojo e delle federazioni, fanno dell’accessibilità a tutti e dell’assoluta mancanza di rischio, una carta da giocare per attirare le persone verso la pratica di questa disciplina; io continuo a pensare che il karate debba tornare ad essere una disciplina “elitaria” e ad appannaggio di pochi, pazienza se così i grandi numeri non vengono raggiunti. Per indole si ha una personale diffidenza verso le cose alla portata di tutti…e praticate da molti, facciamo parte di una minoranza di pensiero che auspica un ritorno alle origini di questa arte, o, perlomeno, un balzo all’indietro di una quarantina d’anni…



L’uomo non vive più nelle caverne, come mi ha ricordato un arbitro internazionale circa un mese fa, per farmi capire che anche il karate doveva cambiare ed adattarsi ai tempi ( naturalmente il
cavernicolo ero io per lui); gli ho fatto presente, che se la maggioranza di chi suona uno strumento si dedica alla musica pop, non significa che non ci sia qualcuno che ancora ami suonare la musica classica…
E' quasi impossibile tornare indietro, troppi interessi in gioco e troppe persone che vivono di karate senza vivere da karateka, difficile rimettersi in discussione ( bisognerebbe ricominciare ad allenarsi e a far fatica…), non è conveniente per gli impiegati delle arti marziali, quelli che arrivano a lezione con la
valigetta ventiquattrore in mano, la maglietta della salute sotto il keikogi e ripetono sempre la stessa litania: ”eh io ho già dato, adesso tocca a voi” (frase sentita migliaia di volte). Si ha la convinzione che le troppe innovazioni apportate a questa disciplina,
abbiano portato più danni che benefici, che tutte queste modifiche, per ”farla evolvere” e adattarla ai tempi, abbiano fatto perdere al karate la sua identità e la sua anima, ma senza avergliene consegnata un'altra, almeno di altrettanto credibile.
M° Lorenzo Tussardi

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